Nato Il 20/03/1910 ad Ospitaletto
Mantovano, frazione del Comune di Castellucchio (Mantova), Carnevali Luciano
Mario il più giovane di tre fratelli, rimane orfano di madre durante la
prima guerra mondiale, con il papà Alessandro al fronte, al quale non viene
concessa la licenza per poter presenziare al funerale della moglie. La vita
per i tre bambini (una sorella maggiore ed un fratello) si fa molto dura ,
vengono divisi e affidati a famiglie diverse di contadini del luogo che li
avviano al lavoro nonostante la tenera età. Non c’è tempo di frequentare la
scuola ma comunque alla fine del conflitto la famiglia si riunisce e dopo
numerosi cambi di residenza fra i comuni di Marcaria (1916) ancora
Castellucchio (1920), la famiglia Carnevali approda nel comune di Curtatone
nel 1929 in provenienza dal comune di Borgoforte.Nel frattempo la sorella
Margherita si sposa e si traferisce a Mantova mentre il fratello Roberto,
pure sposatosi con Palmira, rimane in famiglia con il padre Alessandro ed il
fratello celibe, Luciano. La mansione, molto pesante, è quella di accudire
il bestiame nelle stalle, intervallato dal lavoro nei campi. I cambiamenti
di residenza avvenuti negli anni successivi, 1931, 1932 e 1936, sempre però
nell’ambito del Comune di Curtatone e precisamente sempre nei pressi di
Buscoldo, via Santa, Strada Buscoldina e strada Buscoldo Sud, testimoniano
un tenore di vita certamente non ottimale con continui cambiamenti di datori
di lavoro, effettuati sempre, come usava a quei tempi, il giorno di
S.Martino cioè l’undici di Novembre.
Chiamato alla visita di leva nel 1930, come risulta dalla lista del Comune
di Curtatone, conservata nell’archivio storico di Mantova, Luciano viene
riformato per ben due anni consecutivi con ricovero anche presso l’ospedale
militare di Verona per deperimento organico. Da detta lista, Luciano risulta
ancora analfabeta. Presta comunque il servizio militare dal marzo 1933
all’agosto 1934 nel 9° Artiglieria di Campagna ed in tale periodo impara a
leggere e a scrivere.
Dopo aver assolto
gli obblighi militari, la vita finalmente sembra ritornare normale e
Luciano, durante il lavoro nei campi, dimostra una spiccata attitudine per i
primi trattori che cominciano a diffondersi, con particolare perizia nel
condurli.
Purtroppo in Europa si
addensano nubi oscure e con la guerra ormai imminente, Luciano viene
richiamato nell’agosto del 39 per un periodo di istruzione ed aggregato al
20° Reg.to Artiglieria Autotrasportabile “Piave” in seguito confluito nel
120° Reg.to Artiglieria Motorizzato. Trascorre tutto il 1940 e 41 fra
periodi di istruzione, licenze straordinarie e mobilitazioni fino al
febbraio 1942, quando il giorno 8 viene inviato, assieme a tutto il suo
reggimento in Russia. In realtà la tradotta parte dalla stazione di Padova
alle ore 0.30 del giorno 9 come da testimonianze dei pochissimi
sopravvissuti.
Durante l’ultima licenza
avvisa che per un lungo periodo non sarebbe più tornato, saluta tutti gli
amici del paese (i pochi rimasti), la Signora Norina, responsabile
dell’ufficio postale, i datori di lavoro della corte Buscoldina dove lavora
e risiede, signori Monici, la famiglia Paletta abitante in una cascina
vicina e chissà forse anche una fidanzata.
Il giorno della partenza, ricorda mia madre,
ultima persona vivente ad averlo conosciuto, Luciano è molto triste conscio
che le probabilità di far ritorno a casa sono veramente esigue. Parte a
piedi, durante una nevicata, per recarsi a Montanara (distante circa 6 km)
per prendere il tram diretto a Mantova per il proseguimento in treno fino a
Padova sede del Reggimento.
Per Luciano e la sua famiglia inizia il calvario, dopo pochi mesi
dalla partenza non si hanno più notizie, non arriva posta e la
guerra continua con i suoi tragici sviluppi. Il viaggio da Padova
dura 6 giorni, sul convoglio sono trasportate tutte le attrezzature
necessarie al reggimento come automezzi pesanti e cannoni, il morale
è nonostante tutto, abbastanza alto. Dopo aver attraversato Ungheria
e Romania il reggimento raggiunge la stazione di Jasi, non distante
da Odessa, da dove il reparto prosegue con i propri mezzi per
raggiungere la linea del fronte situato in quel periodo a
Nikitino-Orlowi-Ivanovka-Ivanowski.
Luciano, conducente di
autocarro, come risulta dalla copia del foglio matricolare,
conservato nell’archivio storico di Verona, partecipa a tutte le
operazioni belliche compiute dal proprio reggimento che nel
frattempo viene inquadrato nella III Divisione Celere, in
particolare il 120° si distingue nella famosa battaglia di
Serafimovich avvenuta il 30 e 31 luglio 1942 dove vengono debellati
ben 39 carri armati russi. La linea del fiume Don è raggiunta il 22 agosto 1942 in
quella che è definita la battaglia di arresto sul Don, sulle
alture di Jagodovij, importante centro minerario, dove rifulge
ancora il valore degli artiglieri del 120°. Naturalmente le
difficili condizioni ambientali, lo scarso equipaggiamento, le
continue perdite di mezzi e uomini minano nel morale sia Luciano
che tutti i suoi commilitoni ma il peggio deve ancora arrivare.
L’inverno che si sta approssimando sarà fatale, non solo per
Luciano, ma per tutto il contingente Italiano operante in
Russia.In dicembre i Russi attaccano in forze e riescono ad
infiltrarsi in più punti, alle spalle dello schieramento
italiano.L’attacco sovietico è sferrato in maniera rapida e
travolgente: basti pensare che solo tre giorni dopo
l’attraversamento del Don, l’Armata Rossa occupa la zona di
Millerovo, a cento chilometri a sud del fronte.
Il
19 dicembre si sta per completare l’accerchiamento e la notte del 20
il Corpo d’Armata italiano riceve l’ordine di ripiegare. Inizia un
drammatico inseguimento sotto l’incalzare continuo del nemico
durante il quale il 120° perde tutti i mezzi motorizzati, anche per
l’esaurimento del carburante, e tutti i pezzi d’artiglieria pesante,
ciò che resta del 120° Regg. Artiglieria ha, ora, un inquadramento
ed un armamento da fanteria povera.
I resti del 120° assieme al 3° e 6° bersaglieri, confluiscono di fatto, pochi giorni prima di Natale 1942, nella cosiddetta “colonna Carloni” agli ordini del colonnello Mario Carloni.
Luciano riesce ad inviare il 19 gennaio 1943, da Korsuni, alla sorella Margherita una
cartolina postale, parzialmente censurata, nella quale dichiara di
stare bene e che la posta ha ricominciato finalmente a circolare,
sperando che possa cessare il “continuo cammino e trasloco di
movimento” e che pensa alla sorella giorno e notte.
Il 13 febbraio Luciano
invia un’altra cartolina postale, da Novo Moskowska, alla famiglia a corte
Buscoldina, dichiarando di essere molto dispiaciuto di non aver notizie da
casa, di sperare che Dio gli faccia la grazia di tornare sano e salvo a
casa, invia saluti e baci alle bambine (le 3 nipotine figlie del fratello
Roberto), una delle quali poi sarebbe diventata mia madre, di salutare i
Monici e tutti “quelli che chiedono di lui”. Luciano quindi comincia a
sperare e ad accarezzare l’idea di poter tornare a casa, ormai è quasi un
mese che non avvengono scontri con il nemico e la salvezza sembra ormai
possibile. Ma purtroppo nello stesso giorno, viene presa la nefasta
decisione dal comando tedesco di Dnepropetrovsk, di far retrocedere la
"Colonna" fino alla città di Pawlograd, importante nodo stradale e
strategico posto alla confluenza del fiume Samara col Voleja per contrastare
l’avanzata russa e permettere la copertura dei reparti in ritirata. Sono
rimasti il solo ed unico gruppo di soldati italiani impiegato in azioni di
guerra sul fronte russo, ma questo “onore” non è sufficiente a risollevare
il morale. Si tratta di difendere una città di 80.000 abitanti, a 20° gradi
sottozero, con 2000 soldati italiani ormai stremati, malnutriti e senza
armamento adeguato contro un battaglione russo forte di 20.000 unità, ben
equipaggiati ed armati, muniti di numerosissimi mezzi corazzati.
All’alba del 17 febbraio 1943 i russi
sferrano l’attacco, il 120° si sacrifica quasi totalmente con
combattimenti strada per strada, casa per casa, del II gruppo si
salvano in pochissimi e la VI batteria, quella di Luciano, è
completamente annientata, non si salva nessuno tutti morti o
dispersi, di oltre cento fra sottufficiali e soldati non si sa più
nulla.
“Vediamo fumo e fiamme levarsi dal caposaldo della VI batteria………..
mi corre incontro D’Aquino mi dice concitato che il carro inviato al caposaldo della VI batteria ha trovato solo caduti e feriti. Il Capitano Alari è morto, degli altri ufficiali e di oltre cento tra sottoufficiali e soldati non si sa nulla”
(G. Papuli – Il labirinto di ghiaccio Echi della ritirata di Russia Ed. Thirus 1991).
L’operazione Pawlograd è tatticamente riuscita, sono stati
sacrificati oltre 600 uomini per guadagnare 3 giorni.
Quel che
rimane della “colonna Carloni” riceve gli elogi del generale tedesco
Meinhold, il giorno 22 febbraio quel che resta della “Colonna
Carloni” viene lasciata in libertà dal comando tedesco e i
superstiti del 120° rientrano in Italia il 28 marzo. Il giorno 18
maggio 1943 è redatto, presso il comando del 120° Reg.to Artiglieria
Motorizzato, in Padova il verbale di irreperibilità, previsto dalla
legge dopo 3 mesi dalla scomparsa del soldato che non viene
riconosciuto tra i militari dei quali è legalmente accertata la
morte o la prigionia, dopo il combattimento avvenuto il 17 febbraio
1943 in Russia a Pawlograd. Dunque Luciano è ufficialmente disperso,
viene avvisata la famiglia così come tutte le altre decine di
migliaia di famiglie i cui congiunti subiscono, in quel periodo la
stessa sorte. La cattura da parte del nemico poteva rappresentare
per il soldato l’unica via di salvezza di fronte agli attacchi
travolgenti delle truppe sovietiche e alla loro netta superiorità,
la fine di tanta tensione e della costante paura di finire sotto i
colpi del nemico.
Certamente anche Luciano avrà pensato
questo in quel fatidico 17 febbraio, quasi un’ancora di salvezza,
finalmente avrebbe forse potuto mangiare regolarmente e stare più al
caldo, invece purtroppo era l’inizio di una vera e propria tragedia.
Certamente i vinti non immaginano ciò che li aspetta: la cattura è
infatti per i sovietici il momento in cui trovano sfogo l’odio e
l’esasperazione accumulati, specialmente se nel corso della
battaglia hanno avuto molte perdite. Al momento dell’arresto Luciano
assieme ad alcuni suoi compagni, viene perquisito, è
spaventatissimo, il frastuono della battaglia è ancora assordante e
minaccioso. I soldati russi gettano via medagliette, denaro,
fotografie, lettere ed immagini sacre, tengono per loro orologi,
penne stilografiche, piastrine di riconoscimento che si appendono al
collo come ornamento, sono molto interessati agli specchietti
tascabili in dotazione agli italiani. Un soldato italiano ferito a
morte giacente a terra dietro ai suoi compagni tremanti ed
ammutoliti viene freddato da un colpo di pistola sparato a
bruciapelo. I superstiti vengono condotti ed ammassati in un piccolo
magazzino di cereali, rinchiusi stretti come sardine, qualcuno muore
soffocato. Luciano si trova, il giorno dopo inserito in una colonna
di prigionieri da spostare, nel più breve tempo possibile, dalla
zona delle operazioni verso l’interno. Dopo aver accarezzato l’idea
di poter tornare a casa, si trova ora in uno stato di profonda
prostrazione e disperazione ormai è convinto che ben difficilmente
rivedrà la “sua campagna Buscoldese”. E’ costretto, assieme a
moltissimi compagni di sventura, a intraprendere una marcia forzata
per raggiungere una stazione ferroviaria, duramente provato e già in
stato iniziale di congelamento agli arti inferiori, si ritrova a
percorrere la stessa strada della ritirata, ma questa volta verso
nord-est. Questa marcia detta del davaj (la parola “avanti” viene
urlata ai prigionieri dai soldati della scorta), si protrae per
circa 20 giorni e si effettua sotto la bufera e con sofferenze di
ogni genere.
Lungo il percorso, quanti cadono estenuati dalla fatica
vengono finiti a colpi di mitra. Senza vitto sufficiente, una zuppa
di bucce di patate ed una di grano, niente pane, saltuariamente non
tutti i giorni, a meno 30 gradi, buttati di notte in capannoni
diroccati, scuole o pagliai, ma più volte all’addiaccio. Di
conseguenza il mattino dopo la colonna riparte lasciandosi dietro
decine di morti assiderati. Intanto tra quelli scampati alla notte
all’aperto, ci sono nuovi congelati che non possono mantenere
l’andatura della colonna, rimangono quindi attardati, proprio
davanti ai partigiani della scorta che, appena si fermano, li
eliminano con colpi di parabellum. Finalmente si arriva in un punto
di raccolta e da qui ad una stazione ferroviaria per essere inviati
ad un campo di lavoro.
I prigionieri sono considerati “nemici
del popolo sovietico”, al pari dei nemici interni di classe: avendo
attaccato il popolo dei contadini e degli operai, hanno compiuto un
crimine anche contro la propria classe sociale, essendo per lo più
truppa di estrazione proletaria. Devono quindi espiare la loro colpa
e allo stesso tempo risarcire dei danni causati con il lavoro.
Luciano è ormai debilitato, gravemente ammalato quindi non in grado
di lavorare, ma è un soldato contadino, non è un borghese né un
possidente, da un lagher-campo di lavoro non meglio identificato,
dal quale transita senza essere registrato, viene mandato ad un
campo-ospedale precisamente il n. 3007 a Fosforitnaja ai piedi dei
monti Urali, stesso parallelo di Oslo. Gli spostamenti in treno sono
disumani, come risulta dalle testimonianze dei reduci e come
traspare dalla documentazione ufficiale. Luciano è caricato su un
vagone bestiame, chiuso dall’esterno, privo di attrezzature, con
finestrelle a fior di tetto sbarrate e piombate, ammassato in
ottanta o più prigionieri là dove potrebbe trovare posto solo la
metà. Stanchi, infiacchiti da settimane di marce, affamati, nessuno
è in grado di resistere in piedi per tante ore. Prima qualcuno, poi
tanti altri, abbandonati dalle forze, scivolano tra le gambe dei
compagni, si accasciano su se stessi come sacchi vuoti, qualche
volta senza nemmeno toccare il pavimento, tant’è fitta la selva dei
corpi. Il treno spesso sosta giorni e giorni nelle stazioni di
transito e ai prigionieri non è assolutamente permesso scendere.
All’alba le teste dei bulloni che tengono strette le assi formanti
il carro ferroviario, sono brinate e i prigionieri fanno a turno per
leccarle e dissetarsi. Il cibo, scarsissimo, è distribuito
saltuariamente, lanciato all’interno dei carri attraverso il
portello aperto. Perciò anche Luciano per accaparrarsi qualcosa deve
difendersi da risse e tafferugli fra i suoi compagni di sventura,
per cui quasi tutto il cibo, che consiste principalmente di pane
nero, finisce per insudiciarsi sul pavimento del vagone, diventato
ormai un letamaio. La mancanza assoluta d’igiene scatena epidemie di
tifo e dissenteria; oltre a ciò, le ferite non curate, i
congelamenti arrivati alla setticemia e le polmoniti provocano la
morte di molti dei suoi compagni di viaggio che sono scampati
miracolosamente alle marce. I cadaveri vengono dimenticati e i vivi
sono costretti a viaggiare con i morti, fino a quando i soldati di
scorta non decidono di farli scaricare lungo il percorso. A scadenze
imprevedibili il treno si ferma in aperta campagna, le porte dei
vagoni vengono aperte e un tovarisc, con voce da cane, grida:
“Skolko kaput, sivodnja? Davaj bistra” (Quanti morti oggi? Fate
presto). Osservando attraverso le fessure delle assi che compongono
il carro, Luciano, ormai allo stremo, riesce a cogliere quale luogo
infelice può essere la sua meta! Il paesaggio è ciò che di più
opprimente si può immaginare. A destra e a sinistra della strada
ferrata si stende una palude in cui marcisce una quantità enorme di
abeti e betulle schiantate. Alcuni tronchi abbattuti levano al cielo
gli scheletri dei loro rami; qualche abete è rimasto in piedi, nudo,
nero, verso il cielo grigio.
Luciano arriva il giorno 16 aprile 1943
con un convoglio trasportante prigionieri italiani ed ungheresi, in
questo strano ospedale formato da cinque grandi casamenti in legno a
due piani, sparsi per la collina, a 500 metri dalla stazione, dove
però non ci sono medicine o almeno quelle poche esistenti non sono
assolutamente sufficienti. I cadaveri vengono scaricati dai carri e
gettati direttamente nelle fosse comuni appositamente predisposte
accanto alla ferrovia.
“16 aprile 1943, sera. Spinelli mi ha detto che è giunto un altro convoglio di Italiani e Magiari”.
(D. Gugliemi – ATTENDIMI Diario di un medico prigioniero in Russia 1942-1946 Ed. Elpis 1982)
Luciano è ormai esanime, viene smistato nel
secondo padiglione al reparto “cachessia” l’anticamera dell’al di
là, adagiato su un pagliericcio posto su un’asse di legno, si trova
in uno stato estremo di deperimento organico consecutivo al tifo che
l’ha colpito già defedato dai viaggi e dalla dissenteria. Ha gli
arti inferiori congelati, infestato dai pidocchi, ridotto ormai ad
uno scheletro coperto dalla cute e dai muscoli ridotti ai minimi
termini, non sta in piedi perché la muscolatura non è in grado di
reggere il peso del suo corpo. Presenta una irrefrenabile diarrea,
una quasi paradossale, assoluta assenza di appetito, per atrofia del
tratto gastro-intestinale e a questo si aggiunge la pellagra per
deficienza vitaminica complessa. Si guarda attorno atterrito e
disperato in attesa della morte. La magrezza estrema, la fatale
assenza di pulizia e la durezza del tavolaccio coperto da paglia
sminuzzata, gli genera anche gravi piaghe da decubito. Dopo 4 giorni
di agonia, Luciano muore il 20 aprile per, come si legge nei
documenti ufficiali russi, distrofia degenerativa di III livello. In
maniera così tragica si conclude la breve vita di un giovane
contadino Buscoldese, all’età di 33 anni, in una terra straniera e
lontana, così come avvenne per tanti altri giovani, combattendo per
un ideale che certamente non era il loro. Viene inumato in una fossa
comune assieme a militari di altre nazionalità e grazie al documento
di identità che ha con sé al momento del suo arrivo al campo è stato
possibile identificarlo e registrarlo.
Il percorso di Luciano in Russia
(da Corte Buscoldina ai Monti Urali)
In una data imprecisata, presumibilmente gennaio 1942 dopo l’ultima licenza accordata per le festività 1941/42, Luciano partì a piedi da corte Buscoldina (strada Buscoldina – Buscoldo) per Montanara, in tram raggiunse Mantova e proseguì in treno per raggiungere la caserma Piave a Padova sede del 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato, in via Cristoforo Moro.
- 9/02/1942 lunedì ore 0.35 partenza di Luciano dalla stazione di Padova Centrale
per la Russia (Verona-Brennero-Innsbruck-Linz-Vienna)
- 11/02 mercoledì transito da Budapest (Ungheria)
- 13/02 entrati in Romania. Sosta a Iasi, in prossimità del
confine Romeno con la Moldavia, transitati da Chisinao (Bessarabia)
- 15/02 arrivati a Tighina: fine viaggio in treno
proseguimento con i propri mezzi per Tiraspol 10 Km oltre il fiume
Dniestr
- 16/02 mattino, partenza direzione Odessa dove arrivarono
alle 7 di sera
- Data non precisata arrivo a Nikolaiev con sosta di 2 giorni
- 21/02 partenza da Nikolaiev per Novgorod
- 22/02 domenica sosta nel villaggio di Muy-Bug per guasti
ai camion sempre dovuti al freddo
- 28/02 il 120° entrò a far parte del raggruppamento
tattico “Lombardi”, alle dipendenze della 1ª armata corazzata tedesca
- Dal 01 al 15/03/1942 sosta nelle grandi città industriali di
Dniepropetrovschi e Stalino (attuale Donec’k)
- 15/03 il 120° Reg.to fu assegnato al CSIR e inquadrato
nella 3^ Divisione Celere
- 28/03 Domenica delle Palme, arrivati a Orlowo-Ivanovka
- 12/07 sosta a Fascovka, il 120° partecipò alle operazioni
per la conquista del caposaldo di Ivanovka
- 14/07 partiti da Fascovka e arrivati a Petrovenki
- 20/07 raggiunta Karakas
- 25/07 occupazione di Voroscilograd (attuale Luhans’k)
- 26/07 superato fiume Donez e arrivo a Millerovo
- 27/07 arrivo a Panomarevka
- 29/07 arrivo a Karatgie sull’ansa del fiume Don
- 30/07 a Serafimovich, ansa del Don, nel pomeriggio carri
armati Russi attaccarono di sorpresa il II° gruppo (quello di Luciano)
- 31/01 si riescì a contenere e a respingere l’attacco a
costo di enormi sacrifici ed atti di eroismo
- 05/08 la testa di ponte russa di Serafimovich si poteva
considerare eliminata, occupati i centri abitati di Bovrovski e
Baschovki
- 15/08 la divisione Celere fu ritirata dalla prima linea,
al suo posto arrivò la Sforzesca
- 22/08 la divisione Celere venne richiamata urgentemente
in prima linea a Krischilin, conquista delle alture di Jagodnj
- 26/08 il 120° partecipò all’azione per la conquista di
Bachmutkin
Nei mesi di settembre, ottobre e novembre 1942, ci fu relativa
calma con la costruzione da parte Italiana di ripari e postazioni in vista
dell’imminente arrivo del temuto inverno. Avvennero nel frattempo, da ambo
le parti infiltrazioni e spari di colpi di artiglieria per saggiare la
consistenza del nemico che, nel frattempo, si stava preparando alla furiosa
e decisiva controffensiva.
17/12/1942 All’alba il nemico attaccò in forze, l’artiglieria russa
iniziò un intenso e massiccio bombardamento, nella stessa mattina carri
armati russi attraversarono il fiume Don. Il 120° venne circondato e
neutralizzato, la sorte salvò il II° gruppo allontanandolo dall’ansa del Don
poche ore prima dello sfondamento russo perché inviato verso Millerovo.
- 20/12 a Birikoff si insediò il posto di comando del II°
gruppo che subì immediatamente un attacco russo
- 21/12 case di Melowati ultimo rifornimento di carburante
- 22/12 Donskoj all’alba ultimo rifornimento di viveri
- 23/12 Kijewskoje attraversamento del fiume (non il Don) sul
ghiaccio poiché il ponte era stato fatto saltare
- 23/12 costituzione di fatto della colonna Carloni con i
resti del II° gruppo del 120° + 3° e 6° bersaglieri
- 24/12 Annewski si abbandonarono i trattori trainanti i
cannoni, ore 15 con il buio si ripartì verso Krasnojarowka
- 25/12 relativa calma qualche ora di riposo al chiuso, ore 11
il cappellano militare Don Luigi celebrò la messa (Krasnojarowka?)
- 26/12 furono rintuzzati diversi attacchi da parte dei
partigiani, verso il tramonto si subì un attacco da parte di 4 carri
T34
- 27/12 ore 5 arrivo al paese di Petroskij che venne preso di
mira da colpi di artiglieria nemica
- 27/28 notte, transito da Mariewka, soldati tedeschi
giustiziarono partigiani russi catturati giorni prima ed usati come
guide
- 28/12 per quasi tutto il giorno la colonna venne bersagliata
da colpi di artiglieria, transito da Skassyskaja
- 28/29 notte, arrivo a Mikajlowski con possibilità di parziale
riposo e riorganizzazione generale
- 30/12 si ripartì per una lunga marcia di trasferimento al di
là del fiume Donez, transito da Bogoskaja
- 31/12/1942 transito dal paese di Moroworskaja che stava bruciando
quindi si proseguì per il villaggio successivo
- 2/1/1943 tappa lunghissima ostacolata dal vento con arrivo a Likaja
oltre il Donez, paese stracolmo di truppe non si trova ricovero
-
2-4/1/1943 trasferimento su pianali ossia carri
ferroviari scoperti, arrivo a Rikowo grosso centro delle
retrovie
-
5/1 al 31/1 circa sosta nella localtà di
Korsuni dove regnò una relativa calma
-
1/2 partenza sulla direttrice
Gorlowka-Dniepropetrowsk sotto una bufera di neve, arrivo al villaggio
di Werbki
-
3/2 arrivo a Griscino
-
4/2 arrivo a Petropawlowka
-
6/2 arrivo a Pawlograd. Giunse l’ordine di
proseguire per Novo Moskowska
-
7/2 al 13/2/1973 tappa a Novo Moskowska (qui il 13/2 parte l'ultima
cartolina di Luciano)
-
14/2 ore 3.30 si partì per Pawlograd sotto allarme con arrivo alle
prime luci dell’alba
-
17/2 svolgimento della battaglia di Pawlograd strada per strada e
casa per casa
-
22/2 il comando tedesco di Dniepropetrowsk lasciò libera la
“Colonna Carloni”
-
9/3 arrivo a Gomel dei supersiti
-
28/3/1943 I resti del 120° rientrarono in Italia
Dal 17 febbraio 1943 Luciano era in mano ai russi, quindi fu sottoposto alla tragiche marce del “davaj” e a disumani trasferimenti in treno. Transitò da uno o più lager dove, in data imprecisata, qualcuno prese la decisione di inviarlo al lager-ospedale n. 3007 di Fosforitnj, ai piedi dei Monti Urali, stesso parallelo di Oslo.
In data imprecisata comunque in aprile 1943, transitò su un carro bestiame da Kirov, luogo di recente ritrovamento di una enorme fossa comune contenente migliaia di resti di soldati Italiani, tedeschi ed ungheresi, oggetto di scavi e di studio recenti anche da parte di personalità mantovane.
16 aprile 1943 arrivo con un convoglio trasportante prigionieri italiani ed ungheresi, al campo-ospedale n. 3007 di Fosforitnj
dove viene registrato.
20 aprile 1943 Luciano morì e venne inumato in una fossa comune. Grazie al
documento che aveva in tasca al momento dell’arrivo al campo, fu possibile
identificarlo.