Fin da bambino la storia dello zio Luciano,
almeno quella conosciuta fino a quel momento, mi colpì
profondamente e tutte le volte che ne sentivo parlare da mio nonno o
dai miei genitori rimanevo a bocca aperta ad ascoltare quel racconto
intriso di dolore, delusione e allo stesso tempo speranza di poter
avere qualsiasi notizia di quel soldato partito per la Russia e non
più ritornato, se non addirittura cullare
l’illusione di poterlo un giorno riabbracciare.
Più di una volta mio nonno nel parlarne si commuoveva
dicendomi di vedere in me, nel mio aspetto fisico, le sembianze del
fratello. Si disperava di non aver più saputo nulla e
imprecava e malediceva tutti i politici responsabili di quella
tragedia. Nel mio immaginario di bambino sognavo, una volta diventato
adulto, di partire per la Russia assieme al nonno, cercare lo zio,
ritrovarlo e portarlo a casa. Purtroppo erano solo sogni di bambino
anche se alimentati dai continui riferimenti degli adulti che
immaginavano o speravano che tutti quei dispersi fossero ancora vivi e
chissà magari avevano intrapreso una nuova vita in quel
Paese così lontano. Queste fantasie erano anche alimentate
dal cinema che aveva dato ampio spazio alla campagna e alla ritirata di
Russia.
“Si pensi a
Letto a tre piazze di Steno (1960), con Totò e Peppino De
Filippo, dove si racconta di un reduce (Totò) che, tornato
dalla Russia dopo 10 anni di prigionia, trova la moglie risposata,
oppure al drammatico, neorealista Italiani brava gente, di Giuseppe De
Santis (1965), una coproduzione italo-sovietica con Raffaele Pisu,
Andrea Checchi, Peter Falk. Da ricordare, infine, I girasoli di
Vittorio De Sica (1969), con Marcello Mastroianni e Sophia Loren: la
storia di un soldato dell’Armir che durante il ripiegamento
cade sfinito nella neve e viene salvato da una donna russa. Avendo
perso la memoria, il protagonista resterà a vivere in
Russia.”
(M.T. Giusti- La campagna di Russia 1941-1943 Il Mulino 2016)
“Nell’immediato
dopoguerra, al momento del rimpatrio di poco più di 10.000
reduci sui 95.000 dispersi, l’opinione pubblica italiana si
chiese se gli assenti fossero ancora trattenuti in prigionia oppure se
gli oltre 80.000 italiani mancanti fossero da considerare deceduti in
Russia. La questione divenne un vero e proprio dramma,
poiché il governo sovietico rifiutò sempre di
inviare liste e di servirsi della Croce Rossa. La mancanza di notizie
sui dispersi, durante e dopo il conflitto, oltre che rappresentare un
motivo di sofferenza e di sconforto, esasperò gli animi,
lasciando spazio al sospetto che i sovietici non volessero rilasciare i
prigionieri.”
(M.T. Giusti- I Prigionieri Italiani in Russia Il Mulino 2014)
“La guerra
è come il fuoco nel quale è possibile saltare, ma
difficile è uscirne, ti brucia. Ecco, anche i soldati
italiani furono bruciati da questa guerra. Questa è la
risposta di Chruscev alla richiesta ulteriore di notizie sui dispersi
dell’Armir da parte del governo italiano, riportata nella
Prawda (organo ufficiale di stampa dell’URSS) il 27 maggio
1959.”
(M.T. Giusti- La campagna di Russia 1941-1943 Il Mulino 2016)
A fine anni '80 il nonno, durante una mia visita presso la sua
abitazione al Serraglio, mi consegnò gli ultimi ricordi
rimastigli del fratello: una cartolina postale inviata dal fronte il
13/02/1943, l’Ordine del Giorno del Corpo di Spedizione
Italiano in Russia a firma del Generale Messe, emesso nel maggio del
1942 ed inviato anche a tutte le famiglie dei combattenti, alcune foto
di Luciano e un documento emesso dalla Associazione Naz. Caduti e
Dispersi
della seconda guerra mondiale sezione di Mantova raffigurante 72 foto
di Mantovani partecipanti al conflitto compreso Luciano.
Mi aveva in sostanza investito della
responsabilità di custodire la
memoria del fratello e di continuare, in qualsiasi modo, a ricercare e
a far luce sulle vicende riguardanti il fratello. Non sono mai venuto
meno all’impegno e alla promessa fatta al nonno quel giorno.
Il nonno morì, come ho già
raccontato, nel luglio 1992 e il 2 dicembre dello stesso anno mi fu
recapitata la lettera emessa dal Ministero della Difesa il 21 novembre
1992, in cui si dichiarava ufficialmente la data di cattura,
luogo e data di morte, di Luciano che da quel momento non era
più considerato disperso ma caduto in prigionia. Questa
circostanza confermò in me la convinzione e la
consapevolezza che ormai era giunto il tempo di agire, dovevo
assolutamente avere più notizie possibili degli ultimi anni
di vita dello zio.
Una prima considerazione che feci, alla lettura della missiva,
riguardava la veridicità della sepoltura del nostro
congiunto in una fossa comune unitamente a caduti di altre
nazionalità, speravo ardentemente che a seguito di ulteriori
accertamenti ciò non rispondesse a verità e
quindi poter rimpatriare i resti dello zio. Purtroppo questo desiderio,
come vedremo più avanti, non si verificò. Avevo
altresì apprezzato l’intenzione del Commissariato
Generale di erigere dei cippi commemorativi, una volta localizzate con
precisione le aree di sepoltura, ma anche questa seconda
eventualità, non si verificò.
Un accertamento che feci immediatamente fu la ricerca della posizione
sulla cartina di un atlante della località di Fosforitni ma
ahimè, senza esito positivo quindi mi rivolsi
all’Associazione Combattenti e Reduci di Buscoldo,
precisamente al Presidente Signor Bigi Livio che inviò una
richiesta scritta per chiarimenti, alla sede provinciale di Mantova
dell’Associazione stessa. Purtroppo la risposta del marzo
1993 non fu del tutto pertinente in quanto il campo-ospedale n.3007
veniva associato erroneamente alla località di Voronizza
Chioroff. Mi veniva inoltrato anche l’invito a presenziare
l’inaugurazione a Buscoldo del nuovo monumento dedicato ai
caduti della seconda guerra mondiale comprendente quindi anche il nome
di Luciano. Dallo stesso anno risulto iscritto alla locale sezione
dell’Associazione Combattente e Reduci come simpatizzante.
Nel 1995 l’associazione stessa, in occasione del 50°
anniversario della fine del II° conflitto mondiale mi ha
consegnato un Attestato di Benemerenza intitolato al soldato Carnevali
Luciano.
Nel frattempo avevo appurato che la località di
Fosforitni
si trovava a 1200 km a nord-est di Mosca, ai piedi dei Monti Urali,
quindi molto distante dai luoghi di combattimento dei reparti italiani.
A quei tempi, internet e le sue numerose applicazioni, non avevano
ancora trovato larga diffusione e le pubblicazioni esistenti,
riguardanti la campagna di Russia trattavano, quasi esclusivamente le
vicende delle divisioni alpine per cui il mio desiderio di approfondire
le vicende dello zio subirono un inevitabile arresto.
“La maggior parte dei reduci incontrò
non poche
difficoltà a reinserirsi nella società, a
superare l’esperienza traumatica della guerra. Essi finirono
per essere inascoltati: con il loro repertorio drammatico di
sofferenze, che sembravano impossibili, erano la prova vivente di
un’avventura militare sconsiderata, del fallimento del regime
e del paese.” “Alle difficoltà pratiche
del reinserimento sociale si aggiunsero le strumentalizzazioni
politiche che servirono soltanto a far ricadere sui militari che
tornavano le responsabilità delle disastrose condizioni
materiali e sociali in cui si trovava il paese. La società
italiana e il governo non seppero trovare una mediazione né
una forma di riconciliazione tra quanti, a vario modo, avevano
combattuto per il paese, evidenziando così da subito
l’impossibilità di considerare il combattente come
figura unitaria. Nella neonata Repubblica Italiana si riconobbero
subito i meriti dei partigiani, mentre i militari, considerati complici
del regime fascista, furono relegati nell’oblio.”
(M.T. Giusti- La campagna di Russia 1941-1943 Il Mulino 2016)
Anche per questo motivo faticai molto a rintracciare pubblicazioni
riguardanti direttamente il reggimento di appartenenza dello zio, il
120° Artiglieria Motorizzato, e di tutti i reparti che
combatterono nel settore sud del fronte, vale a dire le Divisioni
"Celere", "Torino", "Pasubio" e "Sforzesca".
Nel novembre del 1998 l’ingegnere e giornalista Gino
Papuli, autore del libro "Il labirinto di ghiaccio"
edito da Thyrus nel 1991, reduce del 120° Reg.to Artiglieria
Motorizzato, scrive una lettera allo scrittore e allora giornalista
RAI, Arrigo Petacco, a seguito della pubblicazione del suo libro
"L’armata scomparsa", stigmatizzando il
taglio della pubblicazione stessa che contribuiva “a
diffondere un equivoco di cui erano soprattutto responsabili i
mass-media poco informati, secondo i quali la campagna di Russia fosse
stata combattuta soltanto dagli Alpini. Senza nulla togliere al valore
di questi soldati, la verità storica e le esigenze di
giustizia imponevano che si tenesse conto anche degli altri due Corpi
d’Armata che costituivano la presenza italiana su quel
fronte.”
(Lettera ad Arrigo Petacco di Gino Papuli
1998)
Il quotidiano La Stampa pubblicò nel gennaio 2003 un
articolo a firma di Gino Papuli dal titolo:
“Quell’ordine assurdo alla colonna Carloni: fermate
i Russi” in cui vengono riportate appunto le vicende nella
difesa della città di Pawlograd, ultimo combattimento
sostenuto sul fronte russo da soldati italiani e che si
rivelò fatale, purtroppo, anche per Luciano.
Gli impegni di lavoro e la mancanza di riscontri certi impedirono,
purtroppo per diversi anni, di compiere passi in avanti nella ricerca
della verità sugli ultimi mesi di vita dello zio, fino al
2010 quando scoprii per caso un sito internet che riguardava,
finalmente, in maniera esclusiva il
120° Reggimento Artiglieria
Motorizzato.
Vi fu subito dopo la consultazione del sito, una fitta corrispondenza
di email e di telefonate con il curatore del sito stesso, Signor Omar
Achille Di Leonardo di Roma, che mi suggerì come procedere
per l’acquisizione di nuova e necessaria documentazione.
Tramite il Distretto Militare di Verona riuscii ad avere copia del
foglio matricolare del caduto e contemporaneamente venni in possesso
del libro “Il
Labirinto di ghiaccio” di Gino
Papuli, ufficiale reduce del 120° appartenente al II gruppo, lo
stesso dello zio.
Lo studio del foglio matricolare ha permesso di
ricostruire tutte le vicende militari dalla visita di leva, al servizio
militare, i successivi ripetuti richiami, l’invio in Russia e
la constatazione della data esatta e della circostanza in cui lo zio
venne dichiarato disperso, appunto il 17/02/1943 dopo la battaglia di
Pawlograd.
La lettura del libro mi permise di ricostruire tutte le vicissitudini,
con dovizia di particolari, degli ultimi mesi di vita dello zio
dall’inizio della ritirata, dicembre 1942, fino alla
battaglia suddetta che scoprii fu appunto l’ultima battaglia
combattuta da reparti italiani in Russia con riferimenti espliciti alla
batteria di Luciano.
La soddisfazione, ma anche l’angoscia, nel conoscere tali
vicende, furono notevoli, tuttavia, man mano si procedeva con la
conoscenza si chiudevano degli interrogativi ma se ne aprivano di
ulteriori. L'enigma più importante che si poneva a questo
punto era il seguente: se il soldato Carnevali Luciano classe 1910, fu
dato per disperso il 17/02/1943 a Pawlograd, (città situata
in Ucraina) e la documentazione ufficiale del Ministero della Difesa
aveva dichiarato che il soldato stesso fu fatto prigioniero il
16/04/1943, internato nell’Ospedale n.3007 a Fosforitni
(località ai piedi dei Monti Urali) dove risultava deceduto
il 20/04/1943, ma in quei due mesi, cioè da febbraio ad
aprile Luciano dov’era, come aveva vissuto, come
potè raggiungere una località così
lontana dal luogo delle ostilità (distante in linea
d’aria circa 2000 km) per poi morire soltanto 4 giorni dopo?
Era evidente che i dati non erano più coerenti e bisognava
assolutamente fare chiarezza in quello spazio temporale di due mesi. Se
da un lato avevo chiarito tutta la vicenda militare dalla partenza per
la Russia fino alla non reperibiltà, dall’altro
lato non avevo nessuna conoscenza e certezza di avvenimenti dal 17
febbraio fino al 16 e 20 aprile.
Mi vennero in aiuto altri libri e naturalmente internet dove
scoprii il sito dell’UNIRR, Unione Nazionale Italiana Reduci
della Russia. Il volume dal quale ho attinto più
informazioni è stato “I Prigionieri Italiani In
Russia” di Maria Teresa Giusti ed. Il Mulino del 2014,
fondato su materiale inedito proveniente dagli archivi ex sovietici e
sulle testimonianze dei pochi sopravvissuti, raccontando il destino dei
militari italiani fatti prigionieri. Anche il “Rapporto sui
prigionieri di guerra italiani in Russia”
dell’Unirr mi è stato utile al fine di ricostruire
il terribile calvario subito dai nostri soldati fatti prigionieri, dal
momento della cattura, alle massacranti marce del
“davaj” verso i primi centri di raccolta e
all’internamento nei lagher dopo lunghi e disumani viaggi per
ferrovia effettuati con carri merci.
Ho contattato anche, via email, “Onorcaduti” del
Ministero della Difesa per esprimere le mie perplessità
riguardo alla non congruenza delle date, ricevendo in risposta ampia
documentazione sul luogo di sepoltura, il verbale di
irreperibilità redatto nel maggio del 1943 e la conferma
della mancata costruzione di un cippo commemorativo a causa del terreno
paludoso. Si avanzava anche, dalle stesse autorità italiane
l’ipotesi che la data del 16 aprile fosse dovuta ad un
possibile errore di trascrizione del personale Russo incaricato della
registrazione, ma si confermava la data del decesso e
l’inumazione in una fossa comune.
La visita al monumento-sacrario di Cargnacco (Udine), costruito nel
dopoguerra a ricordo di tutti i dispersi e caduti della campagna di
Russia, avvenuta nell’estate del 2015, rappresentò
pure una tappa importante in quanto mi permise di acquisire ulteriori
testimonianze scritte da parte dei reduci.
Dal sito dell’Unirr infine scoprii che era possibile
inoltrare ad una associazione Russa a Mosca, “I Memoriali
Russi” l’equivalente della nostra
“Onorcaduti”, richiesta di documentazione riguardo
ad un proprio congiunto già dichiarato prigioniero. Inviai
in agosto 2015 l’email con tutti i riferimenti anagrafici
dello zio, all’Associazione Russa, fiducioso di ricevere
risposta anche se non in tempi brevi.
Dopo qualche mese di attesa, quando cominciavo a
perdere le speranze,
ecco che il 30 novembre 2015 arrivò la tanto attesa risposta
da Mosca, scritta in caratteri cirillici. L’emozione fu
veramente tanta nel vedere quelle scritte a me incomprensibili, ma
speranzoso finalmente di poter risolvere qualche dubbio.
Corsi
immediatamente da una persone di mia fiducia di origine Russa per la
traduzione ed ecco che finalmente tutti i tasselli andarono a posto. In
definitiva le autorità russe erano in possesso di un
documento di registrazione dove erano riportati i dati anagrafici dello
zio, con la data di arrivo al campo n. 3007 (16/04/1943), la data di
morte (20/04/1943) ed il motivo della morte. Quindi il soldato
Carnevali Luciano non fu fatto prigioniero il 16 aprile ma
bensì arrivò al campo-ospedale in quella data per
poi morire 4 giorni dopo, per cui la data di cattura è
ragionevolmente da considerare il 17 febbraio 1943, data in cui fu
dichiarato irreperibile dalle autorità italiane.
Infine a febbraio di quest’anno, tramite un prestito
interbibliotecario, dalla biblioteca civica di Albenga (Savona), ho
potuto leggere il libro, introvabile in qualsiasi altro modo,
“Attendimi: diario di un medico prigioniero in Russia
1942-1946” di Donato Guglielmi ed. Elpis 1982 che descrive il
lagher-ospedale di Fosforitnj e di avere puntuale riscontro con le date
e le circostanze di mia conoscenza.
La soddisfazione di aver chiarito tutte le circostanze del periodo di
permanenza dello zio in Russia è stata enorme, sicuramente
mio nonno Roberto ne sarebbe stato molto fiero. Rimane il rammarico di
non aver potuto ancora deporre un fiore sul luogo di sepoltura (a Fosforitni
c'è un luogo di sepoltura che
corrisponde a quanto riportano i documenti e vi sono già dei cippi di altre
nazionalità) . In
agosto del 2016 sono andato molto vicino a
ciò, raggiungendo infatti in motocicletta, con mia moglie,
la Russia fino a Mosca ponendo le basi affinchè questo
desiderio possa realizzarsi al più presto e rendere
finalmente il giusto tributo “all’eroico
caduto”.